Secondo i recenti sondaggi i referendum sarebbero lontani dal quorum. Quasi nessuno ne parla e gli stessi partiti cercano di rifuggire l’argomento. Insomma, la politica, in nome di un pragmatismo che si trasforma in opportunismo, sembra nascondere la mano dopo aver lanciato il sasso. Dal punto di vista mediatico, visto che le cose non si mettono bene, meglio non metterci la faccia. Questa situazione rischia di creare un grave danno in quanto i detrattori della riforma già si gonfiano il petto dicendo che il problema giustizia in Italia non esiste. Invece, il problema esiste, eccome.
È esteso e coinvolge potenzialmente tutti i cittadini. La questione, però, è oggi legata soprattutto alle difficoltà che incontra lo strumento referendario ed impone una riflessione sull’istituto stesso. Se lo Stato decide di fare una consultazione elettorale spendendo centinaia di milioni di euro, della cosa se ne deve parlare. Ci devono essere trasmissioni televisive dedicate, si deve affrontare l’argomento nelle sedi istituzionali e vi deve essere una vera campagna elettorale. Soprattutto, una volta ammesso il referendum, è anacronistico pensare che vi debba essere un quorum, per giunta del 50% degli aventi diritto al voto. Piuttosto, si modifichino le regole rendendo più selettiva l’ammissione dei quesiti.
La esistenza del quorum, del resto, falsa la campagna elettorale in quanto costituisce un invito a giocare di rimessa. Il che non è edificante per nessuno. Da ultimo, il contenuto dei quesiti. Le stesse caratteristiche del referendum abrogativo, obbligano ad una tecnica di presentazione dei quesiti che spesso li rende così arzigogolati da essere materia esclusiva per gli addetti ai lavori. Forse, il quesito dovrebbe essere comprensibile ed avere una funzione di indirizzo. Il nostro è il paese delle incrostazioni. Così profonde da aver corroso anche gli strumenti che si dovrebbero usare per rimuoverle.
Roberto Cota